L'uso del trust nella crisi familiare: un recente arresto in materia di assegno divorzile di Elena Napolitano, Avvocato e Dottoranda di Ricerca in Diritto Civile UNICAM
23 giugno 2021
Come noto, sino a qualche decennio fa parlare di trust avrebbe significato esaminare una giurisprudenza davvero esigua che si focalizzava perlopiù su pronunce inerenti all’ammissibilità del trust nell’ordinamento interno.
Oggi è addirittura difficile districarsi nella giurisprudenza italiana in materia di trust perchè le pronunce hanno assunto caratteri tanto variegati e si occupano, sebbene in qualche distretto sia ancora guardato con occhio ostile l’istituto de quo, degli aspetti operativi e soprattutto delle sue applicazioni pratiche, cercando di distinguere un suo uso corretto dagli usi fraudolenti, sposati troppo spesso nel nostro ordinamento al fine di evadere le imposte, di occultare i beni e di compiere delle intestazioni fittizie per finalità non commendevoli.
Già i lavori preparatori della convenzione dell’Aja pensavano a un trust che potesse essere utile in ambito familiare, tant’è che si faceva l’esempio di trust volontario come del trust costituito da uno sposo divorziato al fine di adempiere le obbligazioni su di lui imposte:
“il semble qu’un trust volontairement constitué par un époux divorcé afin de réaliser l’obligation qui lui est imposée de trasférer certains biens à son épouse et à ses enfants tomberait sous le coup de la Convention. On peut également considérer comme volontaire un trust constitué par exemple en vue de remplir une obligation alimentaire qui est ensuite homologuée par un tribunal”.
La Dottrina non dubita (almeno in astratto) della possibilità̀ di istituire pattiziamente un trust in sede di separazione o di divorzio e della potenzialità̀ dell’istituto a fungere da modalità̀ di adempimento e da garanzia dell’obbligo di mantenimento dei figli (e anche del coniuge o del convivente).
Il trust può adempiere a funzioni solutorie ma anche a funzioni di garanzia; infatti,
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il genitore obbligato ha la possibilità̀ di sottoporre al vincolo di destinazione le sole risorse necessarie a far fronte agli obblighi assunti;
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nell’interesse dei genitori (e, soprattutto, dei figli) una parte del patrimonio è “isolata” a garanzia dell’adempimento e resa insensibile alle vicende economiche dell’onerato;
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il patrimonio destinato è distinto rispetto a quello del trustee ed inattaccabile da parte dei suoi creditori personali e, inoltre – nel caso di immobili, titoli azionari o altri beni soggetti a forme di pubblicità̀ – il trasferimento in trust comporta formalità̀ che di per sé impediscono atti di disposizione illegittimi;
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col trust si instaura, tra il trustee e il soggetto beneficiario un rapporto obbligatorio che riduce (o esclude) la possibilità̀ di inadempimento.
Proprio perché da subito si era pensato a un utilizzo conforme del trust, la giurisprudenza italiana si è confrontata ben presto con l'istituto.
Lo scoglio dell’ammissibilità del trust nell'ordinamento interno può dirsi varcato con la pronuncia del primo ottobre del 2003 del Tribunale di Bologna, seguita da una pronuncia della Corte di Cassazione un decennio più tardi.
Il leading case è rappresentato da un decreto del Tribunale di Milano del 23 febbraio 2005, in occasione di omologa di un verbale di separazione.
Nel caso in parola, un marito destinava in trust l’alloggio destinato a casa coniugale di sua esclusiva proprietà, al fine di provvedere alle esigenze abitative della figlia minore sino al completamento del ciclo di studi e sino al raggiungimento dell'autonomia economica, quindi adempiendo a quell’obbligo di garantire una dimora stabile corrispondente a ciò che sappiamo essere nell’ambito del diritto di famiglia.
In tal modo, il bene veniva destinato al soggetto beneficiato per l'adempimento degli obblighi nei suoi confronti da parte del genitore e, allo stesso tempo, venivano preservate quelle risorse della famiglia a tutela dello stesso coniuge e della prole, garantendo ai soggetti l’adempimento delle obbligazioni assunte e, contemporaneamente, evitando che le risorse segregate potessero essere aggredite dai creditori.
Il Tribunale di Milano è stato presto seguito dal Tribunale di Pordenone (Decreto 20 dicembre 2005) in occasione di un’omologa di un verbale di separazione consensuale dove i coniugi conferivano in trust tutti i propri immobili.
Il tribunale di Trieste, poco dopo (Decreto 19 settembre 2007), disponeva l'intavolazione di un atto istitutivo del trust con cui due conviventi more uxorio avevano inteso realizzare un patrimonio separato analogo al fondo patrimoniale, cioè destinare i beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia (gli articoli relativi al fondo patrimoniale sono esclusi per la famiglia di fatto), utilizzando il trust come strumento surrogato del fondo patrimoniale per la tutela economica e assistenziale alla famiglia di fatto).
Sempre in materia di crisi della famiglia, nella giurisprudenza si rinvengono anche altri provvedimenti che attengono a casi di omologhe di verbale di separazione con trust autodichiarati.
Da ciò si può notare che l’uso del trust è particolarmente utilizzato in sede di separazione consensuale ove il giudice si limita a porre una sorte di imprimatur sugli accordi intercorsi tra i coniugi e che, in linea di principio, mai contrastano con il preminente interesse della prole, lasciando così l’autorità giudiziaria esente da un controllo approfondito sulla loro congruità.
Diverso è il caso in cui alla richiesta di omologa della separazione consensuale segua la domanda di scioglimento del matrimonio da parte di uno dei coniugi, come avvenuto in una recente pronuncia che rappresenta un caso emblematico di uso “non conforme” del trust.
L’occasione ci viene offerta da un giudizio incardinato nel 2015 al Tribunale di Roma (sentenza n.7604/2021 pubbl. il 3/05/2021).
Anche in questa occasione, a caratterizzare il contenzioso - come già accennato - è lo scioglimento del matrimonio civile tra un benestante avvocato romano e la moglie, psicoterapeuta che aveva rinunciato alla sua professione per dedicarsi ai bisogni della famiglia.
Varie sono state le vicende che hanno caratterizzato tale contenzioso e che qui si sintetizzano.
In sede di omologa della separazione consensuale, infatti, alla consorte era stata assegnata la lussuosa casa coniugale detenuta in comodato oneroso (di proprietà di una società schermo che deteneva in trust tutti i beni ereditati dall’avvocato) e affidato in modo condiviso il figlio, allora minorenne.
In più, era stato designato in capo al coniuge l’obbligo di provvedere mensilmente alle spese relative alla casa coniugale e di corrispondere un importo € 4.000,00 per il mantenimento della ex coniuge e di €4.000,00 per le necessità del figlio; importi elevati rispettivamente a € 15.000,00 e € 5.000,00 a decorrere dal 5° mese.
Dopo 7 mesi, il marito chiedeva la modifica delle condizioni separative nel senso di disporre il collocamento del figlio minore presso il padre, con conseguente allontanamento - di lì a poco - della madre dalla casa familiare, confermando l’importo mensile di € 15.000,00 per il mantenimento di quest’ultima.
Non essendo mai ripresa la convivenza dal giorno della separazione né, tantomeno, essendosi ricostituita la comunione materiale e spirituale tra i coniugi, la consorte aderiva alla successiva domanda di scioglimento del matrimonio e chiedeva il riconoscimento di un assegno divorzile dell’importo lordo mensile di €117.000,00, al fine di mantenere l’altissimo tenore di vita goduto durante il matrimonio.
L’ingente richiesta era rapportata alla piena ed incondizionata disponibilità dell’avvocato di un ingentissimo patrimonio apparentemente in titolarità di un trust derivante dai defunti genitori, ad avviso della consorte “per la migliore protezione dei diritti suoi e del figlio per ragioni fiscali e successorie”.
All’udienza presidenziale comparivano le parti e il Presidente che, esperito con esito negativo il tentativo di conciliazione, adottava i provvedimenti provvisori e segnatamente poneva a carico del ricorrente l’obbligo di corrispondere all’ex compagna di vita per il suo mantenimento un assegno mensile di € 19.500,00.
La consorte proponeva reclamo avverso l’ordinanza presidenziale e la Corte d’Appello di Roma riformava con decreto parzialmente il provvedimento impugnato ponendo a carico del ricorrente l’obbligo di corrispondere alla coniuge l’importo mensile di € 25.000,00.
Il Tribunale, qualche mese più tardi, pronunciava lo scioglimento del matrimonio e disponeva, con separata ordinanza, una nuova iscrizione sul ruolo istruttorio per il prosieguo.
Divenuto maggiorenne, nelle more del giudizio, il figlio delle parti, il Collegio fu chiamato a pronunciarsi sulla domanda della ex consorte di riconoscimento del diritto a percepire l’assegno divorzile dall’avvocato e sull’opportunità per quest’ultimo di prestare garanzia del pagamento dell’assegno tramite fideiussione bancaria, non avendo precedentemente corrisposto quanto dovuto.
Nell’esaminare tale domanda, il Collegio ripercorre le principali tappe dell’evoluzione giurisprudenziale sul punto.
La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (n.18287/2018) richiamata in motivazione, attribuisce una funzione perequativo-compensativa all’assegno di divorzio, al fine di compensare lo squilibrio tra le condizioni economiche dei coniugi, se quest’ultimo è dovuto al “capitale invisibile”, ossia alle capacità professionali e di reddito che uno di essi abbia conseguito grazie al “lavoro sommerso” dell’altro.
Come si ricorderà, infatti, tale pronuncia ha segnato una “terza via” rispetto all’orientamento tradizionale degli anni ’90 (SS.UU. n. 11490/1990) nonché al successivo revirement operato dalla sentenza n.11504/2017.
Con maggiore impegno esplicativo, la pronuncia in parola ha riconosciuto in capo all’assegno divorzile plurime funzioni: quella assistenziale, quella perequativa e quella compensativa.
Il principio di solidarietà posto a fondamenta del riconoscimento del diritto, quindi, impone che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi ed all’incapacità a procurarseli per ragioni oggettive, sia saldamente ancorato alle caratteristiche e alla ripartizione dei ruoli endofamiliari e tale onere incombe, naturalmente, sul richiedente.
Nel caso in esame, l’ex coniuge aveva prodotto in giudizio delle dichiarazioni a firma dell’ex compagno di vita; dichiarazioni aventi chiaro ed univoco contenuto confessorio per cui risultava incontrovertibile il riconoscimento del contributo apportato dalla coniuge al patrimonio del trust.
A tutto ciò, si aggiungeva la circostanza della lunga durata del matrimonio (e della convivenza decennale che l’aveva preceduto) e della chiusura della partita iva della signora da oltre 14 anni.
Alla stregua di tali elementi istruttori, il Tribunale aveva ritenuto equo stimare in € 25.000,00 l’importo dell’assegno divorzile, come già stabilito in via provvisoria dalla Corte d’Appello di Roma; importo da rivalutare annualmente secondo gli indici Istat, non essendo revocabile in dubbio il contributo dato dalla signora alla crescita professionale (e non solo) del marito e alla formazione del patrimonio confluito in trust, reiteratamente definito comune e della famiglia da parte dello stesso avvocato.
La mancata rideterminazione dell’assegno si basava anche sulla considerazione che la reclamante, in sede di separazione consensuale, aveva ritenuto congruo l’assegno di mantenimento di € 15.000,00 mensili e la perdita del godimento della casa coniugale non poteva non assumere rilievo nella quantificazione dell’assegno stesso.
Ai sensi dell’art. 8 della L. n.898/1970, poi, veniva accolta anche la domanda di prestare garanzia del pagamento dell’assegno divorzile tramite stipula di fideiussione bancaria proprio in ragione dei precedenti inadempimenti.
D ciò emerge chiaramente come il possesso delle lettere “confessorie” dell’ex consorte della psicoterapeuta, quindi, si siano rivelate “provvidenziali” ai fini del superamento della rigidità dell’onere probatorio per la determinazione dell’importo dell’assegno divorzile considerato che senza, di certo l’accertamento di un trust non sarebbe stato giudizialmente così immediato.
In accoglimento dell’impostazione della Suprema Corte, con ogni probabilità a nulla sarebbe valso per la consorte incentrare la propria linea difensiva sul nesso causale tra la differenza reddituale con il marito ed il ruolo endofamiliare da lei assunto, considerato che ingente era da considerarsi anche il patrimonio di quest’ultima per cui tale constatazione avrebbe di certo escluso la funzione assistenziale dell’assegno richiesto giudizialmente.
Il trust, quindi, ha avuto il merito di avallare la richiesta di assegno divorzile che di certo non si allinea con un attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità, non più propensa a riconoscere assegni troppo ingenti senza anche una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti nonché delle effettive capacità reddituali.
Questa pronuncia ha sì l’indubbio merito di indurre ad una riflessione relativa all’efficienza e all'equità dei criteri che il nostro ordinamento utilizza per attuare il principio costituzionale di parità nei rapporti patrimoniali all’interno della famiglia ma ciò che viene in rilievo è soprattutto l’uso talvolta distorto dell’effetto di segregazione.
La specificità del diritto dei trust sta nel combinare un effetto reale con un effetto obbligatorio, rendendo quest’ultimo opponibile a terzi, secondo presupposti e con effetti diversi da quelli ai quali farebbe normalmente ricorso la cultura civilistica.
Capita, però, che l’intento di uno dei coniugi nell’istituire un trust non sia realmente – come nel presente caso – quello di sottoporsi a obbligazioni fiduciarie ma talvolta tale scelta può celare l’intenzione di non produrre alcun mutamento significativo al rapporto fra il disponente e i beni inclusi nel fondo in trust.
Ecco che tale istituto talvolta cela negozi meramente apparenti, che mirano esclusivamente a produrre l’effetto segregativo in funzione di protezione verso i propri creditori.
Oltre, quindi, a non perseguire alcuno scopo meritevole di protezione, un trust può recare in sé anche un intento fraudolento nei confronti del fisco.
È notorio, infatti, che il conferimento di immobili in trust è esente dall’imposta di donazione e sconta le imposte ipocatastali in misura fissa in quanto non costituisce autonomo presupposto impositivo, essendo necessario un effettivo trasferimento di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale.
A tutto ciò si aggiunga che, come nel caso di specie, la flessibilità e l’adattabilità dell’istituto in parola viene ancora più in evidenza se si pone l’attenzione sulla tipologia di trust scelta dal coniuge per realizzare il passaggio generazionale: istituire un trust il cui unico trustee, persona giuridica, sia residente e domiciliato in un Paese con fiscalità privilegiata: scelta indubbiamente vantaggiosa sotto il profilo fiscale.
Riproduzione della sentenza -Tribunale di Roma n. 7604 del 3 maggio 2021, per concessione dell’Associazione “Il trust in Italia”.