Lotta alla mafia e nozione di bene personale: un interessante caso in Cassazione Civile, di Giovanna Di Benedetto, Dottoranda di Ricerca, Università di Camerino
7 marzo 2021
La Corte di Cassazione con la sentenza del 11/02/2020, n. 3313, stabilisce che cadono in comunione de residuo le misure di assistenza o la relativa capitalizzazione previste in favore dei testimoni di giustizia dalla Legge 15/03/1991, n. 82, poiché aventi natura indennitaria e non risarcitoria.
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Il casus decisus.
La vicenda in esame ha ad oggetto il ricorso proposto da N.M., innanzi la Corte di Cassazione, contro la di lui coniuge R.I. dalla quale è separato giudizialmente ed i figli N.V. e N.G., avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma. Con la predetta sentenza veniva confermata la decisione del giudice di prime cure, la quale aveva dichiarato che una parte delle somme da egli prelevate dal un conto corrente bancario cointestato con R.I. è di spettanza della predetta coniuge e dei figli N.G. e N.V., condannando l’odierno ricorrente a corrispondere a favore dei medesimi parte delle somme suddette.
N.M. è stato testimone di giustizia, ai sensi della L. 15/03/1991, n. 82 ed ha ricevuto, coniugato in regime di comunione legale dei beni, a conclusione del programma di protezione, dalla Commissione centrale del Ministero degli Interni, la c.d. “capitalizzazione del danno subito”, liquidato in complessivi euro 1.758.771,82, ai sensi dell’art. 16 ter, co. 1, lett. b) e c), del D.L. 15/01/1991, n. 8, conv. con mod. in L. 15/03/1991, n. 82.
Successivamente, R.I. aveva incardinato un giudizio anche per conto dei figli N.V. e N.G. con il quale aveva chiesto dichiararsi che l’odierno ricorrente (dal quale si era separata giudizialmente) si era indebitamente appropriato di somme liquidate dal Ministero e ciò in quanto oggetto della comunione legale, al fine di ottenere la condanna alla restituzione delle somme.
Pertanto, N.M. aveva convenuto in giudizio R.I., chiedendo accertarsi che la somma appartiene in via esclusiva ad esso, in quanto unico soggetto legittimato a potervi disporre, in ragione del suo status di testimone di giustizia. Egli, infatti, aveva sostenuto che la predetta somma costituisse misura risarcitoria e per ciò stesso rientrante tra i beni personali, ai sensi dell’art. 179, co. 1, lett. e), cod. civ. e quindi, estranei alla comunione c.d. “de residuo”.
La Corte d’Appello, riuniti i giudizi, confermando la decisione del Tribunale di prime cure, ha respinto il gravame.
Indi, N.M. ha addotto, tra l’altro, tra i motivi di ricorso innanzi alla Corte di legittimità, la pretesa violazione e falsa applicazione dell’art. 16 ter, della Legge 15/03/1991, n. 82 e dell’art. 179, co. 1, lett. e), cod. civ.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendolo infondato e pertanto, ha dichiarato che le somme di cui all’art. 16 ter, della L. 15/03/1991, n. 82 sono misure indennitarie, giacchè il risarcimento presuppone sempre o l’inadempimento di una obbligazione negoziale o ex lege ovvero la realizzazione di un illecito.
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Cadono in comunione de residuo le misure di assistenza in favore dei testimoni di giustizia, di cui all’art. 16 ter, co. 1, lett. b) e c), della L. 15/03/1991, n. 82, poiché aventi natura indennitaria e non risarcitoria.
“Come diceva Giovanni Falcone, coloro che collaborano con la giustizia non sono dei deboli che «tradiscono» ma persone che sempre più si sentono estranee alla cultura del silenzio e dell’omertà” (1).
Come correttamente sottolineato dalla sentenza in esame, esiste una crescente esigenza di protezione e regolamentazione in capo a coloro che rendono la propria deposizione nei procedimenti penali.
Si tratta di una esigenza che si è fatta gradualmente strada in ambito nazionale, a partire dalla fine degli anni 60 con la violenta estremizzazione della dialettica politica (c.d. anni di piombo) (2) e successivamente con l’organizzazione imprenditoriale del fenomeno mafioso (3) ed in ambito internazionale con la lotta al crimine internazionale organizzato e da ultimo con la lotta al terrorismo di matrice religiosa.
Ciò al principale fine di garantire ai soggetti coinvolti nei processi penali in qualità di testimoni la piena libertà di determinazione, oltre che garantirne l’effettiva sicurezza, risultando inadeguate le ordinarie misure adottabili.
Vengono, così, predisposti strumenti di assistenza e protezione specifici tali da sottrare i testimoni, i loro familiari e comunque persone ad essi vicini a potenziali ritorsioni o intimidazioni.
Tra i predetti strumenti vanno segnalati quelli previsti dall’art. 16 ter del D.L. 15/01/1991, n. 8.
In particolare, quelle di cui al co. 1, lett. b), ove si prevedevano misure “…volte a garantire un tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello esistente prima dell’avvio del programma, fino a quando” non si riacquista la possibilità di godere di un reddito proprio. Oppure, in alternativa, come si prevedeva al co. 1, lett. c), del medesimo articolo, la capitalizzazione del costo dell’assistenza. Infine, il testimone di giustizia poteva beneficiare, ai sensi del co. 1, lett. e), della “corresponsione di una somma a titolo di mancato guadagno”.
Le anzidette misure venivano estese, ai sensi del co. 3 del citato articolo, anche in favore delle persone stabilmente conviventi o coabitanti.
In un turbinio di termini utilizzati indistintamente nel linguaggio tecnico giuridico e nel corrente linguaggio politico e giornalistico diventa assai probabile incadere in equivoci terminologici grossolani.
Appare, pertanto, preliminarmente opportuno, per ciò che qua interessa, mettere a fuoco alcuni concetti.
Se è vero, come sostenuto dalla parte ricorrente, che la stessa Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa, nella relazione sui testimoni di giustizia del 19/02/2008, ha evidenziato che lo Stato italiano con le misure di cui all’art. 16 ter, del D.L. 15/01/1991, n. 8, si impegnava a risarcire il danno che il soggetto è costretto a sopportare in conseguenza della sua disponibilità a denunciare i fatti di cui è a conoscenza o a rendere testimonianza. Eventualmente anche riconoscendo ai testimoni di giustizia già titolari di attività imprenditoriali forme di risarcimento compensativi dei minori introiti derivanti dall’assunzione dello status di persona sottoposta al programma di protezione.
E’ anche vero che va, tuttavia, esclusa la natura risarcitoria di dette misure di assistenza o della eventuale capitalizzazione delle misure stesse e ciò anche al di là dell’ampio uso che di tale locuzione si fa in atti parlamentari o comunque ufficiali.
E’ del tutto evidente che si tratti di misure di natura indennitaria e non già risarcitoria e ciò in quanto, il risarcimento presuppone o l’inadempimento di una obbligazione negoziale o ex lege oppure, in alternativa, la realizzazione di un illecito.
In questo caso, in particolare, appare impossibile individuare l’eventuale illecito ed il conseguente danno da addebitarsi a carico dello Stato italiano, nel caso di testimoni sentiti in seno ad indagini o procedimenti penali.
Sempre in tal senso, se mai vi fosse bisogno di chiarirlo, vanno, come correttamente rilevato dalla Suprema Corte, anche le circostanze che l’erogazione delle anzidette misure muove dalla sottoposizione dell’interessato ad un programma di protezione e che le stesse hanno carattere discrezionale e non già obbligatoria.
Escluso, dunque, la natura risarcitoria di dette misure e correttamente inquadrate le stesse nell’ambito di misure indennitarie, ci si interroga in ordine alla caduta o meno delle stesse in comunione legale ed in particolare nella c.d. comunio de residuo.
Come correttamente concluso dalla Suprema Corte, allora, esclusa, a priori, la riconducibilità delle misure, di cui all’art 16 ter, co. 1, lett. b) e c), del D.L. 15/01/1991, n. 8, nell’alveo dei beni personali, poiché non costituenti beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno come previsto dall’art. 179, co. 1, lett. e), si devono ritenere le stesse inevitabilmente ricadenti nel solco dei beni costituenti la comunione de residuo.
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Così Dacia Maraini, in Sulla mafia. Piccole riflessioni personali, Roma, 2009.
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Espressione mutuata dall’omonimo film, di Margherete Von Trotta, del 1972.
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Sul fenomeno mafioso così L. Sciascia, in Storia illustrata, 1972: “La più completa ed essenziale definizione che si può dare della mafia, crediamo sia questa: la mafia è un'associazione per delinquere, coi fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si impone come intermediazione parassitaria e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato”.